Trapassati remoti

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by Chiedi alla Polvere

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Novembre 27, 2021

PATTI SMITH: “Memento mori” (1997)

They took his name/and they carved it on a slab of marble/with several thousand other names/all the fallen idols,/the apples of their mother’s eye./Just another name. – Presero il suo nome/e lo scolpirono su una lastra di marmo/con molte migliaia di altri nomi/e tutti gli idoli caduti,/cari alle loro madri./Solo un altro nome.

Giro la chiavetta dell’auto nel primissimo pomeriggio di una giornata autunnale a tratti nebbiosa e scelgo il romantico percorso interno al posto di quello autostradale, nella convinzione che la destinazione sia raggiungibile più tranquillamente. Mal me ne incoglie, perché il tragitto si rivela infarcito di innumerevoli deviazioni campestri che il navigatore mi segnala con spietata precisione, indirizzandomi su strade adatte più a un’escursione da biker che a una ricerca urbex. Arrivo a destinazione dal percorso teoricamente più veloce, come dalle sollecite precisazioni del mezzo tecnologico, ma in chiaro ritardo sul previsto, al punto che il crepuscolo già sta allungando le sue ombre: la dura realtà della scomparsa dell’ora legale. Il luogo che intendo raggiungere è il primo nel suo genere ed è una preziosa scoperta, tanto è nascosto e dimenticato. Si tratta di un cimitero rurale sorto intorno a una minuscola chiesa del XV°, oggi gravemente compromessa. L’area cimiteriale fu prevista nel 1718 e inizia la sua funzione intorno al periodo napoleonico, anche se le strutture per le tumulazioni allargate saranno avviate solo intorno al 1900. L’accesso è segnato da un breve sentiero alberato marcato da imponenti cipressi che conducono al portale ogivale di stile vagamente neogotico, percorso obbligato per raggiungere il muro di cinta che circonda il complesso cimiteriale. L’atmosfera che si respira è quella di una singolare mescolanza tra i simboli del più classico cattolicesimo e suggestioni ossianiche di stampo irlandese. Per un attimo mi sovviene la necessità di avere con me una zampogna. Alla monumentalità dell’ingresso fa da contraltare, all’interno, l’area cimiteriale vera e propria, sobria e improntata alla semplicità della tipologia rurale cui naturalmente si richiama. Il cimitero presenta alcune significative singolarità. Anzitutto è stato terra di sepolture quasi agli anni ‘70 del novecento, quando le spoglie dei defunti che conteneva furono traslate altrove e, quindi, di fatto oggi è un cimitero senza più defunti, salvo forse alcuni resti relativi a pochissimi loculi ancora apparentemente intatti, tra cui ne segnalo uno che indica la data del decesso più vicino a noi (1967), che presumibilmente coincide con la cessazione effettiva dell’attività. Il cimitero, delimitato dalle mura perimetrali in più punti sbrecciate e cadenti, costituisce un’esemplare rappresentazione delle tradizioni tombali degli ultimi cento anni, dalle tipiche inumazioni con croci di varia foggia ai piccoli monumenti funebri in pietra, fino ai classici loculi costruiti nell’ultima fase di attività. La caratteristica ricorrente in molte di queste tombe è l’elencazione, oggi ormai desueta, dei mestieri esercitati in vita o delle modalità della scomparsa dei defunti, come se essi stessi potessero parlarci descrivendoci il loro ultimo istante. I volti raffigurati negli ovali delle foto ricordo sono tutti impropri, inadeguati agli epitaffi riportati, quasi che le loro pose siano forzate o addirittura fuori tema rispetto alla solennità dell’addio. In molti di questi ovali ho ritrovato uno straniamento rispetto alla fissità del momento, come se ognuno dei defunti fosse rimasto stupito dall’ineluttabilità dell’evento e non valgono i vestiti delle festa a riscattare il tutto, né le pose impostate o le descrizioni agiografiche delle loro dignitose imprese domestiche. Non mi sembra di aver trovato alcuna foto che ritragga i defunti post mortem, metodo peraltro non inconsueto fino agli ultimi anni dell‘800. Tutti sembrano smarriti e impreparati e in più di uno, specialmente fra gli ultimi arrivati, ho notato la tipica espressione di chi pensa: “Ma proprio a me doveva toccare?”. Viene da pensare che comunque ogni persona vive la sua vita fino all’ultimo e che nessuna sofferenza, nessun amaro destino, nemmeno l’estremo limite possa distogliere dal compito di vivere, anzi, di più, dal mestiere di vivere. Intanto, le ombre del crepuscolo si sono allungate fino a rendere illeggibili gli epitaffi sulle tombe anche per l’autofocus della reflex, figuriamoci per le mie modeste diottrie. È il caso di ritornare, ma stavolta allungherò il percorso di una ventina di chilometri per guadagnare il litorale e tornare in autostrada; non sarei proprio in grado di sciropparmi un altro tragitto campestre in auto tra le tenebre incombenti. Mentre mi dirigo verso l’auto al riparo del breve sentiero dei cipressi, rifletto sulla stranezza di aver visitato un cimitero che ormai ha ceduto i suoi morti a quello del capoluogo e considero che non più tardi di una ventina di anni fa il miracolo marchigiano era additato come l’esempio del piccolo è bello, con tutta la litania e la retorica conseguente dell’economia virtuosa. Poi subentrò la globalizzazione e si sciorinarono le nuove parole, ormai di uso nazional-popolare: filiera, sinergie, eccellenze, fare sistema. Nel loro nome improntato al nuovo credo, tutto fu spazzato via. Occorreva pensare in grande e grande è stato il tonfo. Forse il silenzio perfetto di questo cimitero rurale è la vera risposta alla supponenza dell’ondata economico-finanziaria che ha stravolto le nostre esistenze e che non rispetta neanche il muto rimprovero dei morti, ostinati nel raccontare le loro storie congelate dal tempo.

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